venerdì 31 maggio 2013

Situazione contingente

O

gni volta che mi accingo a scrivere un post vorrei sempre fosse quello della rinascita, della linea retta che si spezza, della rabbia che lascia il posto al sorriso. Le buone intenzioni non mancano mai, salvo poi, mentre le parole scivolano sul foglio, rendersi conto che sarà per un'altra volta. Mi sono sempre rimproverato della mia tendenza ad ammonire, pregiudicare, sentenziare. Col senno di poi avevo quasi sempre ragione ma era il mezzo ad essere sbagliato. L'impulsività non mi è stata mai d'aiuto e fortuna ha voluto che invecchiassi ritrovando un bel po' di saggezza. Negli ultimi tempi ho avuto modo di riflettere sulla mancanza di umiltà, piuttosto diffusa tra il genere umano; e sono giunto alle solite considerazioni spicciole, da bar, sulla presunzione, l'ignoranza e via dicendo. Vorrei dire che nonostante tutto sono tranquillo perché sto lentamente alzando le braccia in segno di resa di fronte ad un destino che non odio, anzi quasi quasi amo.Per quanto il lasciarsi trascinare dal fiume degli eventi porti sempre tutti allo stesso mare non posso che ammirare coloro che ancora credono nella vita, nei sorrisi, nella condivisione. Io no, e allora? Non ho mai preteso di essere un amico per tutti anzi, non lo sono mai stato per nessuno, ma non ho mai creduto all'amicizia altrui. Perché non c'è da fidarsi, la ragione è semplice. Ed ora che tutto o quasi, con grande fatica, sta per essere chiarito scelgo l'anonimo silenzio di colui che non vuole rischiare di vedere le proprie parole, utilizzate contro di sé. Ma c'è un tribunale degli uomini capace di dire ciò che è giusto e sbagliato? Quali sono le norme che regolano i rapporti? Nel virtuale, come anche nel reale spesso si ignora un aspetto rilevante, quello chiamato “situazione contingente”. Perché noi siamo ciò che scriviamo, quello che diamo l'impressione di essere. Questa immagine non è mai nitida e pulita, a volte evidenzia piccole imperfezioni che un occhio non esperto non riesce ad individuare. Sono quelle piccole alterazioni dello stato d'animo dettate dalla situazione contingente. A chi dare la colpa di non aver capito? Sono stanco di tutto questo, stanco di dover sforzarmi a capire chi pretende di capire. La mia solitudine esige rispetto nella misura in cui la mia solitudine sono io in tutto e per tutto. In questo mondo fatto di piccoli orticelli che crescono ben curati dal proprietario la regola è : mai guardare l'orticello del vicino. Sotto l'erba più verde a volte si nasconde solo un semplice artifizio.

 
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mercoledì 29 maggio 2013

Bandiera bianca

D

eve andare così. Alzare bandiera bianca quando l’avversario si chiama destino non è poi così disonorevole. E non è mai una resa vera e propria, il fato quotidiano è solo una delle tante battaglie che fanno della nostra vita una vera e propria guerra. Il buon Seneca diceva:“Il fato guida chi lo accoglie e trascina chi lo combatte”. Possiamo dargli completamente torto? Ma quando al termine di ogni battaglia la conclusione finisce con l’essere sempre la stessa (non ci ho capito niente), beh non resta che adeguarsi. Inaspettatamente il lavoro sta diventando un problema. Prima era semplicemente un “falso”. Ora che stavo metabolizzando fisicamente gli spostamenti continui, ora che stavo facendomi una ragione della mia non-vita, ci si mette pure il lavoro. Detto così sembra che fino ad ora io mi sia coccolato dietro una scrivania; niente di più falso. Solo che adesso è arrivato il tempo delle novità, di chi arriva e deve per forza sconvolgere tutto, credendo di rappresentare il nuovo. Io so già cosa mi aspetta e sebbene abbia imparato la lezione, ho paura. Ho paura di me, della mia fragilità, dei miei pensieri quando tutto sembra travolgermi. La mia mente parte in quarta e vola verso i lidi tanto sognati e mai raggiunti: condivisione, allegria, pacche sulle spalle. Poi quei pensieri tornano beffardamente a colpirmi il cuore, come un boomerang. Tornano vuoti, privi di speranza, di consistenza. Sono amari. Amaro come il mio umore di oggi, come la mia voglia di iniziare quel percorso di silenzio distruttivo che tanti hanno calpestato allontanandosi da me. C’è una bandiera bianca che sventola di fronte a questo generale impietoso che sembra avere tutte le carte in regola per vincere la guerra. Eppure in questo “deve andare così” c’è a volte la soluzione salomonica ai milioni di perché che costellano la mia giornata, alle milioni di mancate risposte che mi porto a letto nella speranza di un domani diverso. Pare semplice per qualcuno minimizzare ma rispetto pienamente le opinioni di tutti: perché tutti, chi più chi meno viviamo quotidianamente la battaglia. Poiché non voglio pretendere di essere capito, ancor meno amo sentirmi commiserato e odio sentirmi dire le solite frasi di circostanza, penso che il silenzio distruttivo abbia una ragione di essere. E’ la giusta via di mezzo tra rispetto per se stessi e considerazione dell’altro senza sfociare nella banalità. Deve andare così. E chi vede solo negatività in questo articolo non ne ha afferrato il senso vero.

 
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martedì 28 maggio 2013

Negazione assoluta

S

appiate che ho rinunciato a farmi la barba per scrivere questo articolo. E questo è già il secondo elemento di novità di una giornata solo apparentemente uguale alle altre. La notizia è tutta in due semplici lettere unite a formare una piccola parola, dal significato perentorio. No. C’è tanto vigore e tanta voglia di riemergere nella mia reazione di oggi quando, ancor prima di accomodarmi sulla sedia, avvertivo il sentore dell’ennesima presa per il culo. E allora, ecco un No tanto naturale quanto efficace. Mi sarei aspettato imbarazzo da parte mia, la solita frase che lascia spazio alla possibilità, all’eventualità di un Si. E invece, no. Credetemi, ho chiuso la porta di quell’ufficio pervaso da una sensazione nuova. Finalmente, una reazione. “Enzo allora le hai le palle”, andandomene quatto quatto verso il mio ufficio. Una risposta che rivela decisione, rispetto per la propria persona, e soprattutto la capacità di amare se stessi. Senza poi considerare quel tempo successivo alla reazione, finalmente libero da domande, supposizioni e propositi di vendetta. Insomma, cari lettori, sono soddisfatto di me. Poi probabilmente torneranno all’attacco, giocheranno sulla mia fragilità, sulla mia patologia del cronico assenso. Ma ora non posso non prendere le mosse da questo fatto. E per scriverlo qui, per rendervi partecipi ho persino rinunciato a farmi la barba. E cosa c’è di rilevante in tutto questo? Eccome se c’è. Mettere da parte le mosse programmate, le attività studiate a tavolino per fare qualcosa che interessa maggiormente. Eccola la novità. Vada a farsi fottere la barba, non è con la barba o senza che la sostanza cambia. Vedete, non sono un uomo finito, ho sempre da imparare ma non dagli altri, solo da me stesso. E solo nel momento in cui riuscirò a dipingermi addosso l’immagine di persona rispettabile e decisa, avrò fatto un nuovo passo avanti. Gli altri non contano molto in questo periodo della mia vita. Sono davvero impegnato a ricostruirmi, ad approfittare il più possibile delle grane che il lavoro mi sta dando per vivere meglio. C’è ancora tantissima confusione, i pensieri sono sempre di più, sempre ossessiva la tendenza a far quadrare il cerchio, ad avere la vita sotto perenne controllo. Non è possibile, ma in tutto questo caos, sono ben felice di avere momenti di ritrovata identità. E ben venga anche la barba lunga.

 
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lunedì 27 maggio 2013

Ordine sistematico

V

orrei tanto poter avere il tempo di parlare con coloro che negli ultimi tempi ho bistrattato. Vorrei davvero convincerli, spiegando che l’assenza non è mai tale. Quando il tempo mi travolge e sono indaffarato ad incastrare ogni movimento, ogni impegno all’interno del giusto spazio, io penso a loro. Penso agli amici, a quelli pseudo tali, penso anche a me stesso. Vorrei far capire che la mia incapacità di essere (se non amico) una persona affidabile, non è una malattia curabile. Mi piacerebbe dire loro quanta fatica faccio ad essere o ad apparire sereno di fronte a tutto questo. Sono un uomo ansioso, vittima delle proprie paure, prima fra tutte quella che la propria vita gli sfugga di mano. Quando la fase è concitata sto malissimo, peggio di quando tutto invece, sembra immobile. E’ vero, ora non ho tempo per pensare al senso della vita, devo solo far quadrare i conti in un periodo dove regna l’incertezza, soprattutto sul lavoro. Mi ero abituato bene ad un certo tipo di quotidianità, in fondo l’ufficio dovrebbe essere il male minore considerando la pendolarità. Ma ora che il lavoro sta cambiando io sento subito il carico emotivo: sono stanziale, abitudinario, una volta accettato il territorio d’azione vorrei fosse l’ultimo. Ed invece non è così. Mi sono posto un termine:la fine dell’estate. Spero che per allora io possa riprendere in mano il timone e mi venga concesso di studiare a tavolino anche le amicizie. Che brutte espressioni, vero? L’amicizia dovrebbe essere un sentimento, la vita poi non è una stanza da sistemare, i pensieri non posso essere ordinatamente chiusi in un catalogatore da ufficio. La mia rovina è la schematicità mentale. Che poi finisce per travolgere ogni cosa, sentimenti compresi. Chi vuole ha pazienza, chi non vuole se n’è già andato. Non me la sento di dare addosso al virtuale o solo ad esso; ma non posso spiegare a coloro che mi stanno ancora dietro il perché della mia volatilità. Quando mi siedo qui, come stasera, è come facessi realmente ordine su qualcosa. E questo mi rende apparentemente più tranquillo. Sono sempre solo. Stamattina ero a casa e per niente al mondo mi sono perso un appuntamento al quale ero abituato tempo fa: una chiacchierata con mia madre. Non ha prezzo, credetemi. E’ l’unica persona al mondo che rispetto e con lei sto cercando di recuperare il tempo perso nei litigi dei periodi bui. E’ l’unico conforto che abbia.

 
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domenica 26 maggio 2013

Contrappasso

C

onosciamo tutti ( o quasi ) la legge del contrappasso. In parole povere, sei colpevole di qualcosa e ti viene inflitta una pena contraria alla colpa. Rimanendo in tema di “mal comune mezzo gaudio” scopro con piacere di non essere il solo a provare piacere nell'attività dell'auto-fustigazione. Solitamente infatti, amo farmi male negandomi la possibilità di godere, di provare soddisfazione, di vivere. Ecco, nel mio caso il contrappasso non attacca. Trovo invece una speciale corrispondenza con il comportamento di coloro che sono colpevoli del non voler pensare, del non riuscire a rimanere fermi per timore di sentirsi soli. Quale pena viene inflitta loro? O meglio, quale pena decidono di auto-infliggersi? Per contrappasso, applicano la peggiore possibile, ovvero vivono una vita piena di vita, tanto piena da non saperla più gestire, convinti che questo sia il modo giusto per stare bene, per essere felici. Prendiamo ad esempio mia madre. Lei non ha età, lei è una donna viva la cui età anagrafica non consente più di tanto di soffermarsi a pensare alla vita futura. Chissà cosa pensa una persona anziana quando la propria esistenza ha in gran parte esaurito il download. Ma vedo mia madre e per quel poco che vedo, noto la sua iperattività come legge alla quale non può sottrarsi per paura di pensare. Ricordo anche di un'amica la quale un giorno mi disse: “Non posso averti come amico, non puoi pretendere la mia amicizia per il semplice fatto che sono troppo impegnata a vivere.” Se si fosse fermata, per lei sarebbe iniziata la fine . A questo punto mi consolo, per il semplice fatto di aver scelto una pena commisurata alla mia colpa. E auto-punendomi rimango me stesso, nel mio personale masochismo, nella mia ostinata sopravvivenza. Mi duole invece osservare chi si flagella in questo modo così turpe; provo persino un po' di compassione. Non mi voglio addentrare ulteriormente, questo mio spazio è del tutto libero, qui posso dire le cose che voglio senza ovviamente offendere nessuno. Ma questo fatto del contrappasso mi ha spinto a buttare giù queste poche righe. Anche tu mamma, perché ti ostini a punirti di una pena contraria alla tua colpa? Che poi, colpa non è. E' semplicemente il non voler accettare il fatto che pensare è un atto di coraggio, di accettazione. Se i pensieri sono grigi o ancor peggio neri, non sarà uccidendoti di vita che li scaccerai. Mia madre non ci sente. Da che pulpito viene la predica, vero? Ma evidentemente, era giusto distinguere, nella miriade di masochisti, autolesionisti e mascherati d'ordinanza, di che tipo di pena quotidiana essi vivono. Anzi, sopravvivono.

 
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sabato 25 maggio 2013

Mal comune, mezzo gaudio

P

oi dicono che devi uscire, fregartene degli altri, chiudere in un cassetto i problemi, pensare a te stesso e vivere in modo positivo. Sorridi alla vita Enzo! Ma che cavolo ci sarai mai da sorridere. Se avessi pronunciato queste stesse parole davanti ad un qualsiasi interlocutore di media cultura, normodotato cerebralmente, conoscitore quel tanto che basta dei più famosi luoghi comuni, mi sarei sentito dire: “Enzo, smettila. C'è chi sta peggio!”. A quel punto avrei stretto i denti in segno di stizza e pure arricciato le dita delle mani dal nervoso. Non sopporto quelli che, nel bel mezzo del tuo discorso serio, della tua accurata esposizione dei fatti, amano “rompere” il tono del dialogo con le solite frasi dissacranti. Che tu stia parlando seduto al tavolo di un bar oppure a quello decisamente più affollato della solita piazza virtuale, riceverai le stesse risposte. Avevano ragione quelli che mi ripetevano: “Enzo, il virtuale non è il diavolo o meglio, non è solo il virtuale ad esserlo”. Pretendere tanta realtà oppure ostinarsi a trasformare ciò che nasce virtuale in realtà, non necessariamente porta sostanza. Non c'è sentimento alcuno, non c'è preoccupazione che non sia poi velata da un sottile egoismo, non c'è darsi che non sia, venire dato, prima o poi. E poi sarei solo io il ragioniere? Io il freddo? Io quello che si lamenta e poi tratta male gli altri? Siamo tutti sulla stessa barca, ragion per cui io ora trovo piacevolmente naturale comportarmi come mi sento senza timore di essere giudicato. Questo è l'elemento nuovo di questi giorni. Ne ho fatta di strada no? Prima mi consideravo alieno e pensavo che tutti fossero inferiori, incapaci, inetti; ora sono sceso dal piedistallo e vedo tutti sulla stessa linea, perfettamente uguali. C'è ancora qualcosa che non va. Il lavoro sta accentuando l'ennesima contraddizione: da un lato tappeto, macchinetta che muove la testa in segno di assenso ad ogni richiesta; dall'altro insubordinazione, istinto, reattività, rabbia. Non si può urlare dopo che si è dato il permesso di schiacciarci le palle. Eh no. Non so impormi, sono prima zerbino, poi leone. Non va mica bene. Ed è lavoro. Ma come ben sapete il lavoro è una consistente parte della mia vita e, se va male lì, peggio che andare di notte. Non ne viene fuori un'immagine di me finita, finalmente completa di tutti gli accessori per i casi di emergenza. La vita è uno stato di emergenza, la vita è usare tutto quello di cui disponiamo per il nostro vivere bene. E abbiamo armi di cui ignoriamo l'esistenza o che utilizziamo semplicemente male. Poi forse il cerchio si chiuderà. Per intanto, metto nel sacco l'ennesima “alzata di spalle”.

 
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venerdì 24 maggio 2013

Conigli

I

o non posso ricordare quante persone hanno incrociato il mio cammino. Quante ne ho amate, baciate, abbracciate. A quante poi ho detto “ti amo” od un semplice “ti voglio bene”. Non ricordo quante ho volte ho mentito nel farlo, quante ho tradito. Si fa fatica a capire gli altri, a giustificarli o a perdonarli perché si dimentica in fretta chi si è stati. Probabilmente è vero il proverbio per cui chi semina vento raccoglie tempesta. Ma vi pare normale mettersi qui a fare quadrare i conti, ad un passo dal mezzo secolo di vita? Quello che voglio dire stasera è che ho avuto la fortuna/sfortuna di conoscere moltissime persone come quasi tutti nella vita. Non guardatemi ora, non sono sempre stato un eremita, un asociale, un musone, critico cinico e vendicativo. Sono stato quello che il tempo e le condizioni richiedevano, senza mai perdere la mia vena riflessiva ed analitica. E a prescindere dal numero delle persone che hanno “fatto” il mio passato, io ora sono solo. Qui ed ora. Perché? Non voglio più parlare della solitudine stupida, cioè dell'assenza fisica di qualcuno. Lo trovo poco costruttivo e inutile allo scopo. Parlo invece di quella interiore che rende alieni, incompresi, che fa piangere come bambini. E attenzione, non solo quando si è soli al buio di una stanza. Bisognerebbe capire che l'alienazione non è solo una condizione connessa ad un certo tipo di personalità ma è anche ( e soprattutto ) frutto dell'interazione. Più provi o ti trovi costretto ad interagire più ti scopri diverso. Unico, direi. Ecco dunque il discorso della quantità: ma possibile che nella moltitudine di persone che ho incrociato sul mio cammino ho sempre avuto la sensazione di non riconoscermi, di non trovare la perfetta empatia, la totale condivisione? Vedete, faccio questo discorso non al fine di trovare ostinatamente una soluzione. Parlo da uomo che si sta accettando pur volendo ancora capire qualcosa. Non so, faccio un altro esempio: è possibile che si sia perso il gusto di insultarsi? Di mandarsi a fare in culo in modo schietto, magari sbattendo violentemente la cornetta del telefono? Ah a dire il vero la cornetta non esiste più... Dicevo, perché non si ammette di essere diversi, di accettare l'incompatibilità e si preferisce vivere nel limbo dell'indifferenza? E alla fine stiamo tutti bene, tutti lì beatamente soli credendo di essere circondati da tanti bei cuori e tanti begli occhi pieni d'amore. Balle. Siamo diventati tutti conigli, questo è.

 
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giovedì 23 maggio 2013

Una mano lava l’altra

N

on posso ignorare il fatto che è il lavoro ad essere in cima ai miei pensieri. Non potrebbe essere diversamente dal momento che occupa dodici ore al giorno della mia vita . Sono una macchina da guerra perché per me lavorare significa innanzitutto, esorcizzare. Arrivo in ufficio con il sorriso sulle labbra, esco con lo stesso identico fare scanzonato. Mai maschera fu più azzeccata per sopravvivere alla triste quotidianità delle otto ore da trascorrere con perfetti estranei. Sono una macchina da guerra perché nel lavoro dò tutto me stesso in termini di impegno e disponibilità; conosciamo bene ciò che tutto questo comporta a livello psicologico, ma è materia ormai vecchia. Sono una macchina da guerra quando nonostante tutto mi ritrovo a scrivere qualcosa di me e di queste giornate in fotocopia. In fondo, è l’unico vero momento di libertà e sincerità espressiva. Si potrebbe dire che è tutta energia sprecata, che il lavoro non vale tanta dedizione fisica e mentale; si dirà invece che per quanto mi riguarda, aver trovato un lavoro è significato aver rinunciato a vivere. Il processo di accettazione è in fieri. Non mi resta che pensare, che fare giri immensi ed acrobazie usando le parole scritte. Se non corressi il rischio di passare per matto, parlerei pure da solo, quando ne ho bisogno. Oggi faceva caldo. Che poi la cosa ti fa incazzare sapendo che domani saranno di nuovo nuvole. Non sono riuscito a salire sul treno e ho preso posto sulla panchina del binario baciata dal sole. Ho chiuso un po’ gli occhi: pensavo che ho fatto la mia parte in questi ultimi due mesi. Ho ristabilito un certo equilibrio interiore e ho fatto qualche progresso nel proporre un’immagine di me accettabile, non dal punto di vista estetico, questo è ovvio. Tutto naturale. Mi piace parlare di spontaneità dei gesti, delle azioni, delle reazioni agli stimoli. Mi piace perché mi sono finalmente liberato non delle maschere, ma dei periodi di calma apparente, quelli che preannunciavano le eruzioni distruttive. Ora mi sento piacevolmente pervaso da un senso di serena rassegnazione. Me ne accorgo quando, al termine di una telefonata sarei tentato di dire cose che, non dico. Sarei tentato dal cercare ancora e sempre un appiglio, una conferma, uno scoglio al quale aggrapparmi. No, l’appiglio sono io, l’ancora sono io; ovunque andrò, che si tratti di un viaggio oppure semplicemente delle solite escursioni interiori. Guardare con i miei occhi e non con quelli degli altri. Il passo è fondamentale.

 
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mercoledì 22 maggio 2013

Giochi di società

N

on c’è primavera, non c’è aria tiepida, non c’è sole. Nulla sa di Maggio nell’aria e quel che più manca sono i primi caldi raggi sul viso stanco, mentre il 6.47 prosegue il suo viaggio verso Torino. E’ il festival delle occasioni perse, niente è come dovrebbe essere, là fuori; persino la nebbia ad un certo punto pare chiudere le trasmissioni sul mondo oltre il finestrino lercio. Il mio occhio non si chiude mai a cercare il sonno, piuttosto prova ad abbandonarsi allo sguardo in lontananza per immortalare seppur impercettibili, pensieri positivi. E se la risoluzione non sarà delle migliori, ben vengano le considerazioni concrete, efficaci, piene di sostanza. Il cielo di questo Maggio è un bel casino, ma non sarà così per sempre. Guardo attraverso il mio personale finestrino e rivedo dentro me quel cielo, irritante, desideroso di liberarsi di un contesto che non è il suo. Che ci sto a fare, pieno di nuvole quando dovrei risplendere di azzurro? Che ci sto a fare, costantemente incazzato, quando dovrei propormi in tutta la mia solarità, la mia voglia di vivere? Me lo chiedo sempre, non sempre so rispondere ma sento di essere un po’ come questo strano cielo. Vedrete che prima o poi si libererà del suo peso fatto di grigio ed anch’io lo farò. Sento di avere raggiunto la massima naturalezza possibile nel rapporto con gli altri. Ora sono io e solo io. Non c’è forzatura, impegno, non c’è pregiudizio, neppure aspettativa. Ci sono io con i miei soliti problemi, le mie solite giornate fatte di lavoro, le incazzature, le lamentele. Cambia il modo di cercare gli altri: non è più un grido di aiuto, la pretesa di ascoltarmi, l’arroganza di condividere il mio stato. Sto già camminando da solo, sto già iniziando un nuovo percorso fatto di una solitudine diversa, produttiva, costruttiva, vantaggiosa. Ce n’è voluta, ma ce l’ho fatta. Ho dovuto persino prendere parte al grande “gioco del silenzio”. Non lo conoscete? Per parteciparvi basta essere iscritti ad un social network, scegliere qualche persona a caso cui confidare tutto o quasi della propria vita dopodiché vince chi nel minor tempo possibile riesce a dissolversi senza pronunciare parola. Anch’io mi sono dissolto per qualcuno, anch’io ho fatto del silenzio, l’uso che più si addice al mondo virtuale. Sono le ultime delusioni ad aver aperto autostrade che mi stanno portando dritto dritto verso il pieno controllo delle emozioni, verso la giusta accettazione dell’incapacità umana di giocarsela con il dialogo. E nell’indifferenza io trovo pace.

 
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martedì 21 maggio 2013

Apparenze

E

’ dura far credere di essere una roccia. E’ dura dover confortare, compatire, accettare, annuire quando dentro sei vetro e basta un niente a romperti. Eppure tutto questo è e continua ad essere Enzo. Enzo non dice di no salvo poi sedersi sui sedili blu del regionale fermo al binario e…. rimuginare sulle sue manchevolezze. Enzo non sa esimersi dal provare dispiacere, pena per chi sta attraversando un periodo anche peggiore del suo, salvo poi chiudere la comunicazione e pensare che anche lui merita un “come stai”. Enzo non sta bene, Enzo non è una roccia, questi sono dati di fatto. Enzo sta rimpiangendo le fredde mattine d’inverno quando, ignaro dei passanti, percorreva la strada verso il lavoro pensando a cosa stesse cercando, quale fosse il suo vero obiettivo. Dove fosse il senso. Quella era follia, ma mai come allora Enzo si è sentito padrone delle proprie capacità. Porsi un obiettivo, per quanto assurdo agli occhi degli altri, è pur sempre un segno di vita. Ora è tutto un “mi dispiace”, “che si può dire”. Enzo è bravo a parlare di sé, non ha difficoltà alcuna nel cercare tutte le possibili strade per arrivare a dire qualcosa, purché si parli di lui. Enzo non è egocentrico, vanitoso, presuntuoso come si crede; Enzo ha bisogno di dimenticare, di chiudere la porta ed aprire il portone. Non è il tempo che rende nervosi, depressi, bizzosi. Non è il bisogno di luce che ci fa sentire un po’ tutti strani. Qui c’è una vera e propria sceneggiatura creata ad arte per far girare le palle costringendomi ad essere roccia. Sento che si sta pericolosamente avvicinando il solito “bum!”. Siamo a pochi giorni dal contatto, il vaso è nuovamente colmo e la malcelata indifferenza verso il mondo sta per essere pietosamente smascherata. Cosa accadrà? Probabilmente tornerò a spingere giù il solito mattone esistenziale senza poi riuscire ad impedire che fuoriesca dalla bocca. E allora saranno le solite accuse, il solito vittimismo, il solito odio integralista. Tantissimi anni fa ( almeno venti ) un vecchio amico di penna riconobbe già nell’Enzo ventenne un caso degno di studio. “Enzo, ho l’impressione che i tuoi periodi depressivi siano destinati a tornare con la stessa facilità con cui se ne vanno”. La storia si ripete e nella storia si ripetono altre piccole storie, come cerchi concentrici. Riportando qui tutto questo, forse non faccio altro che aggravare la situazione. Devo pur dirlo a qualcuno, e sapendo di essere il solo ad ascoltarmi qui, lo faccio con tutta la sincerità possibile.

 
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lunedì 20 maggio 2013

A mente fresca

S

tanotte ho dormito profondamente ma è tutto un trucco. Ancora psicologicamente turbato dalla notte di Sabato, ho indotto il sonno con una magica pastiglietta. Conta l’obiettivo ed io stamane ero riposato, quasi fresco. A trarne beneficio il mio rendimento lavorativo e, in modo particolare, l’approccio con l’ambiente, da tempo ormai difficile da sostenere. Insomma, il fine ha giustificato il mezzo. E stasera, rientrato a casa ho subito abbracciato il tempo, gli ho dato una bella pacca sulle spalle e gli ho promesso un trattamento speciale. Devo liberarmi degli schemi mentali in generale, ma quello del tempo è indubbiamente il più limitante. Pensare che la mia vita sia sotto il controllo di un infallibile cronometrista è in parte da folli, ma credetemi non è facile liberarsi delle gabbie che ci costruiamo intorno. Il tempo è poco ma alla faccia della primavera mancata e dell’estate sempre più lontana, so già che finirò per allontanarmi dall’impegno del web. Devo confessare che spesso limito le ore a mia disposizione per le piccole cose, proprio a causa di Internet. Sono ancora troppo schiavo del sistema, penso sempre possa essere un elemento indispensabile nella quotidianità. Si dovrebbe fare una necessaria distinzione: il web da un lato e le persone che ne fanno parte dall’altro; mi riferisco a quelle  che dalla rete sono piombate nella mia vita. Allontanarsi dal mezzo non dovrebbe significare allontanarsi anche da loro. Non ho mai fatto mistero del mio pensiero al riguardo. Quel mondo è tutt’uno con chi ne fa parte dunque, accantonato lui, ne accantono il contenuto. Sbagliato vero? Si, certo. Ed ecco, nel cuore di questo articolo, emergere la mia natura di uomo insensibile, così mostruosamente diverso da quello fragile e bisognoso che talvolta fa capolino. Oggi mi sono trovato a dispensare parole di conforto. Mio Dio, non ne sono capace. Non riesco a dire le solite ovvietà di circostanza legate ad un evento triste; con estrema facilità mi avvicino e mi allontano. Ci sono persone capaci di frullarmi in testa in modo ossessivo per un periodo salvo poi essere dimenticate. Sapete? Io ho paura dei numeri, sono negato in matematica. Ma nonostante tutto sono un perfetto ragioniere; nella misura in cui mi sono avvicinato a qualcuno (ed ho ottenuto un lento distacco) così io ripago con la stessa moneta. Dire che non c’è volontarietà non è credibile. Accettare il fatto di essere imperfetto, umanamente possibile.

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domenica 19 maggio 2013

Il viaggio

C

alma Enzo. Ci vuole tutta la calma e la pazienza del mondo quando la notte, l'unico momento in cui perdi finalmente coscienza di ciò che sei, ti volta le spalle. Non è colpa sua, semplicemente di un mondo di merda, fatto di arroganza, maleducazione e discriminazione. Pazienza. Andiamo avanti, alla luce di questo sole di una Domenica mattina che mi trova, nonostante tre ore scarse di sonno, vigile quel tanto che basta a stendere le solite trentacinque righe. Dalla posizione fetale a quella gambe larghe a pancia in su per finire seduto con le spalle appoggiate alla testiera del letto. Il terrore di guardare l'ora mentre là fuori era baldoria. La mia notte porta i soliti pensieri, torna pure la paura di qualcosa che voglio, desidero, che prima o poi dovrò attuare. Scelte. Se dovessi rappresentare graficamente il momento della decisione non ricorrerei alla solita strada che ad un certo punto incontra una biforcazione. Troverei più aderente alla mia persona un punto ( Io ) dal quale partono infinite rette corrispondenti ad altrettanti possibili soggetti o conseguenze. Vedete? Perdo completamente il controllo su me stesso, le mie volontà, i miei interessi e considero solo l'altro e ciò che la mia scelta potrà causargli. Dunque non scelgo. Ci si può voler male a tal punto? Oppure si è solo empatici? Ad un certo punto, a pancia in su sono arrivati i pensieri belli: il viaggio. Cosa rappresenta ora per me? Potrebbe partire da qui la definitiva soluzione al problema delle relazioni e al dilemma della condivisione. Mi sono reso conto che il non considerare l'altro ( quando questi è inattendibile e inaffidabile ) libera di non pochi pesi e regala una nuova sensazione di libertà. Ti senti capace di esserci, di vivere senza dover aspettare, senza dover necessariamente condividere. Non ho mai amato questo verbo semplicemente perché non credo che i momenti belli siano più belli se vissuti con due cuori e guardati con quattro occhi. La mia è solo dipendenza, come quella del feto dalla placenta da cui naturalmente dovrà staccarsi. Il ruolo di mamma, non dimentichiamolo. E' con l'occhio dell'uomo maturo che scrivo di quanto sia stato ed è, importante; e di come ora sono io a non volermene staccare più di tanto. Quando Morfeo stava finalmente per abbracciarmi ho pensato che potrei davvero essere felice, amandomi. Devo partire, il viaggio non sarà solo una metafora per alzarmi in volo, sarà fisico e mentale verso la totale riconsiderazione di me stesso.

 
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sabato 18 maggio 2013

Messaggi in bottiglia

A

volte leggo messaggi subliminali e ho l'arroganza di pensare che io ne sia il destinatario. E allora penso alla persona che li ha inviati e alla sua speranza ( spesso vana ) che vengano carpiti ed interpretati. La mia è solo un'ipotesi e l'arroganza lascia subito spazio all'umiltà; dunque faccio finta di niente. C'è pure un'altra considerazione da fare: un messaggio buttato là, dove centinaia di persone vi si possono riconoscere è un messaggio sprecato. Per chi non avesse capito sto facendo ciò che più mi viene naturale fare: autocritica. E poi mi preme dire ancora un'altra cosa: ho imparato che il messaggio subliminale è un gesto codardo perché porca puttana, non ci vuole nulla a tentare di capire, se proprio tieni a qualcuno. Ora realizzo l'inutilità dell'azione abbozzata, della pietra lanciata e della mano poi nascosta. Il mondo di oggi si ferma alle considerazioni, alle valutazioni, talvolta ai giudizi e poi, si ferma. La reale intenzione muore prima ancora di nascere.Scrivo questo articolo a distanza di una notte dal precedente e ci si aspetterebbe la solita litania in fotocopia; invece mi basta dare un'occhiata in giro per trovare sempre uno spunto più che valido. E' proprio nell'agire altrui che spesso rivedo la mia immagine riflessa, soprattutto quella di uomo senza grigi, solo bianco oppure nero. Pendolo tra esasperata timidezza e animalesca istintività, tra parole tanto lucide ed altre sporche di rabbia. Io sono fermamente convinto che la maggior parte delle amicizie siano ad uno stato di stallo, quasi sempre per colpa dell'atteggiamento omissivo di chi è in gioco. Lo faccio io, anzi no aspetto che lo faccia tu. E così mettiamo in soffitta storie mai nate per dare ingiustamente spazio a quelle più facili da vivere, perché meno impegnative. E poi ci chiediamo perché non funziona nulla, perché i valori non esistono. Non capisco dove sto andando a parare, come sempre quando penso di scrivere qualcosa e poi mi perdo. Rimango però sempre aderente alla realtà di tutti i giorni, ringrazio chi mi dà inconsciamente spunti di riflessione. E se il messaggio subliminale non mi riguardava beh, meglio. Per intanto non ho fatto ciò che si dovrebbe fare, cioè dire al mittente ciò che penso. Da buon coniglio lo faccio qui, dove mi è permesso generalizzare. Ma quando riconosci in qualcuno una buona parte di te stesso non vorresti che la sua mente, i suoi occhi, le sue parole si disperdessero nell'aria. Non è facile. Mi piacerebbe capire di più ma, in fondo siamo tutti un po' sospesi, tutti un po' incompiuti, tutti meravigliosamente imperfetti.

 
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venerdì 17 maggio 2013

Senza far rumore

S

crivere è anche chiudere il cerchio. E' come giustificarsi, dare una spiegazione plausibile all'assenza. Io manco dal mondo ma ultimamente manco da me. E scrivendo, cerco di rimettere le cose a posto, di far quadrare di nuovo i conti, di riprendere il controllo. Già, il controllo. Mai come in queste ultime settimane ho la netta impressione di essere stato cacciato dalla stanza dei bottoni. Sappiamo bene chi è il responsabile no? Non si può pretendere le cose vadano sempre come vorremmo, ma io questo lo so bene, desiderando sempre ciò che potrei raggiungere solo per caso, oppure cominciando a vivere il mondo. Mi duole dire che è il lavoro a darmi molti problemi, a rendermi nervoso, intrattabile, svogliato, disinteressato a ciò che mi ruota intorno. Tengo a precisare che non sono le dinamiche interne all'ufficio, piuttosto che l'essere quotidianamente girato come un calzino. Io ci metto del mio, il carattere è un fattore decisivo, si sa. Mi spiace invece ribadire quanto sia ormai insostenibile il mio ruolo di pendolare, la mia sottomissione al tempo che, piano piano sembra diventare impossibile da gestire. Caos nel caos. Dove sono i punti fermi? Non li vedo perché non ho il tempo di accorgermene così come non ho il tempo di pensare alla gestione dei rapporti. E' storia vecchia. Gestione è il peggior termine si possa usare quando si parla di qualcosa che dovrebbe avere a che fare con i sentimenti. Eppure nel mio modo di pensare ed agire ogni cosa dovrebbe essere tenuta sotto controllo, ad ognuno ( persona ) si dovrebbe poter dedicare attenzioni meticolose e puntuali. Macché. Bisognerebbe pure riuscire a capire quali sono le persone per le quali varrebbe la pena e quali no; beh io lo sto capendo e pensate che proprio in questa fase di grande caos ho ben chiaro chi c'è e chi no. Tuttavia sembro preso da altro che non so esattamente cosa sia, forse un'istintiva voglia di silenzio, di stare per conto mio senza disturbare od essere disturbato. Sono attirato dall'idea di far sentire la mia presenza in modo diverso, usando l'assenza non urlata, non annunciata. Si capisce che sono confuso, so che non riesco a spiegare cosa provo, cosa mi fa arrabbiare, e cosa a volte, mi fa piangere. Perché non mi è affatto passata la voglia di farlo e sento che non è lontano il giorno in cui lo rifarò. Ho chiuso il cerchio, solo per dire che provo ad esistere.

 
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mercoledì 15 maggio 2013

Silenzio, per favore!

D

a quando lavoro a Torino ho un solo desiderio: andare a vivere in campagna. Le ragioni sono due: preferisco gli animali alle persone e, cosa ancor più importante, vorrei sposare il silenzio. Con tutto il cuore, davvero. Non è solo la scenografia delle mie dodici ore di lavoro, il rumore è nella provocazione, nei silenzi distruttivi, nelle frasi ad effetto. E credetemi, io non sono mai esente da colpe. Di tutto ciò di cui amo lamentarmi io sono quasi sempre responsabile a mio modo. Ogni volta in cui rispondo alla provocazione, mi lamento di qualcosa, urlo la mia solitudine io, faccio rumore. A questo punto delle due l’una: la smetto di sovrappormi al frastuono che arriva da fuori, oppure rischio l’esaurimento nervoso. Sta progressivamente diventando rumoroso persino scrivere, parlare attraverso semplici strumenti di messaggistica, mandare sms. Quando piazzo il mio sederino sul sedile blu della prima declassata mi guardo intorno e calcolo il tempo che mi sarà concesso per non pensare. Poco. Tornerà il rumore a breve, ed il rumore torna. Mi capisco e mi giustifico quando, una volta arrivato a casa sono nervosissimo, me la prendo con un ferro che di tanto in tanto mi brucia una camicia, con la doccia che spruzza. Voi direte: “Ehi Enzo, guarda che è tutto normale, tutti lavoriamo, tutti torniamo a casa stanchi”. E allora si vede che non sono un uomo, che non ho il fisico, e soprattutto che non ho testa. Il cervello c’è, è la forza mentale che manca. Perché vergognarsi di dire che sono vicino all’esaurimento nervoso e che sto provando a capire cosa mi può risolvere il problema. Ieri sera , dopo il solito “ahhhhhhh” appena distese le membra sul letto, ho pensato a questo: “ Enzo, prova a fare un paragone con lo scorso anno. Com’erano le cose? “. Beh, ho concluso che sul lavoro nulla era diverso da oggi e la mia vita sociale aveva sempre la solita riga: elettroencefalogramma piatto. Dunque? Perché ora mi sento così abbattuto, sempre con un’espressione di scazzo disegnata sul volto e, soprattutto stanco mentalmente. Semplice. Non ho valvole di sfogo, ma quante volte devo ripeterlo? Ormai ogni articolo di questo blog è la fotocopia riveduta e corretta del precedente. Ci tengo solo a sottolineare che sono confuso, che la mia lontananza dal virtuale sta significando menefreghismo. Non conosco mezze misure. Sono io. Siamo alle solite. 


 
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martedì 14 maggio 2013

Solo fumo

S

ono attimi, momenti davvero sfuggenti ma intensi. Sono le volte in cui sento di bastare a me stesso. E sono felice. Ecco servita la contraddizione oppure l’ennesima situazione simile a quella del cane che si morde la coda. Potrebbe essere la conferma finale: io e gli altri non abbiamo nulla in comune, non ci sono possibilità, la solitudine è la mia condizione definitiva. Sembra così, in effetti è come se facessi mente locale, qualche conto sul dare e avere, tenessi in considerazione i soliti comportamenti che mi arrivano dall’esterno; nell’attimo in cui metto insieme i pezzi, la sensazione è di leggerezza. Attimi, momenti, dunque niente di stabile. Non a caso la più grande contraddizione sta proprio nel vantarmi di poter vivere di me stesso salvo poi lamentarmi in continuazione delle assenze. E’ curioso (anzi direi divertente) notare come un giorno ti sei fatto un’idea di Tizio e quello seguente vieni smentito in modo categorico. Ci giro continuamente intorno ma l’assioma da cui dovrei dedurre tutte le mie considerazioni è quello per cui ognuno pensa a sé stesso. Non è che scopro l’acqua calda ogni giorno, sono certezze che ho assimilato e metabolizzato; ingenuamente però mi aspetto sempre una dimostrazione che mi stavo sbagliando, che sono troppo categorico e pretenzioso. Credetemi, io non pretendo niente. Ormai, a quasi quarantacinque anni non posso più permettermelo; sono esigente ed intransigente con me stesso e questo va bene. Ma dal prossimo, cosa posso pretendere? Questo blog sta diventando del tutto inutile quando si tratta di riempirlo di considerazioni dettate dalla serenità d’animo. Diciamo che si svilisce, diventa freddo e senza pathos. Guardate ieri, ero infuriato. Si tratta di quelle volte in cui nello spazio di non più di dieci minuti ti ripassano davanti agli occhi, facce parole, tutto e di più. Ecco, allora il blog mi viene in aiuto. Ora sto scrivendo e noto con quanta fatica io riesca a trasmettere qualcosa che non sia la solita minestra riscaldata. Signori, sono stanco. Ma è anche giunto il momento di capire dove e quando Enzo è di nuovo cambiato ed entrato in un vicolo cieco. Ho solo l’impressione di uscirne, sono attimi. Cosa sto scrivendo? Ma cosa sto dicendo? Ma perché scrivo? Potessi, mi riformatterei senza eseguire il back-up. Siamo già a Maggio. Dio mio, non ho concluso niente.

 
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lunedì 13 maggio 2013

Menomale

M

enomale che ci sei tu, amico mio. Menomale che ci sei tu a chiedermi un semplice “Come stai?” alla fine di una giornata infernale dove tutto ti fa schifo e la vita la odi ancor più del solito. Menomale che ci sei tu ad ascoltare il mio lamento vero, sincero, legittimo, sacrosanto. Che ci sei tu a raccogliere le mie sofferenze esistenziali, il mio chiedermi ancora e sempre : “Perché io?”. Menomale che puoi fare tesoro di una memoria infallibile e potrai almeno tu, conservare su questi fogli il mio malessere. Perché di fronte ad una marea, ad un oceano di finti “come stai?” non ce n’è uno e non ci saranno altri “come stai” sinceri, veri, autentici. Persino uno pseudo amico reale che chiamo quotidianamente per avere notizie del padre: ecco, credimi amico mio, non mi ha mai chiesto un “come stai”. E’ uno schifo vero? Ad esempio, in una giornata maledetta sai che a quel “come stai” io risponderei con un fiume di parole. Ed invece reprimo ed invece me la prendo con il tempo bastardo, con mia madre, con questo lavoro di merda. Caspita, lo sai che credono io sia fortunato, amico mio? Solo perché ho preso un autobus al volo. Poveri stupidi. Sai, amico mio, oggi in fondo non è altro che un passo avanti verso la luce, verso una libertà che desidero come e più di prima . Menomale che ci sei tu a cui posso raccontare che oggi avrei mandato a fanculo tutto il mondo, avrei voluto ritornare a certi momenti di rabbia vera, quando ancora me la prendevo con l’universo; ed invece, questa maledetta testa sta giocando contro di me. Mi sta facendo accettare tutto, mi sta dicendo di farmene una ragione. Ma che ragione e ragione. Io sono puro istinto, passione, e devo sfogare. Amico mio , trovo vergognoso e paradossale che una persona come me, intelligente, sensibile, piena di istinto vitale si debba ritrovare a camminare nel deserto ormai disidratata, alla ricerca di un’oasi che è più di un miraggio. Ancora menomale che ci sei, lo ripeto, lo ricalco, lo urlo. Se non ci fossi tu non so come farei. Hai capito in che società di merda viviamo? Ti rendi conto che la gente è talmente egoista da costringere un uomo a servirsi della scrittura, di un foglio per far sentire che è vivo? Ma a cosa servono gli uomini? A cosa serve quella gente che si immola dietro aforismi, che si ispira a citazioni per dare lezioni di vita e poi, è solo più di una cacca di cane. Menomale che ci sei tu. Ti voglio bene amico mio.

 
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domenica 12 maggio 2013

Lavori in corso

I

giorni scivolano via apparentemente tutti uguali, ogni settimana che finisce porta con sé pensieri ormai ridotti a fumo che si disperde nell’aria. I pensieri appunto, non hanno consistenza. Per meglio dire, ce l’hanno ma solo nel momento in cui diamo una forma ed un peso ad essi, quelli che solitamente risentono della situazione contingente. Già da qualche settimana non sento più il macigno che negli ultimi mesi scendeva impietosamente nello stomaco per risalire poi sotto forma di rabbia e di dolore repressi. Frutto di una progressiva accettazione della realtà. Ne è la prova il fatto di aver spostato ( seppur involontariamente ) l’attenzione sul lavoro. E’ come se la bilancia delle mie emozioni fosse perennemente in movimento tra vita e ufficio senza mai trovare un punto di equilibrio. Ho scoperto l’acqua calda, che dite? Mi preme dire ( con non poca soddisfazione ) di aver finalmente trovato un “modus operandi” assai produttivo che consiste nell’affrontare i problemi ad uno ad uno. L’ufficio mi stressa, lo odio per il novanta per cento del tempo; al di fuori di quella porta mi stresso, o meglio mi stressavo. Ecco, era quello il punto dolente. Concentravo troppo la mia attenzione sul dover rendere la mia vita extra-lavorativa assolutamente gratificante. Non avendone i presupposti e la materia prima. Ogni cosa a suo tempo e dunque, via l’idea dell’ineluttabilità del tutto. Giocoforza e in modo però assolutamente naturale ho preso le distanze dal mondo virtuale facendolo diventare parte del tutto e non il tutto. Non posso negare che non stia facendo fatica e, se sono ricorso all’aiuto di E. una ragione c’è. Ma Enzo non conosce le mezze misure e (perfettamente in sintonia con la sua innata imprevedibilità, passionalità, razionalità –tutto e il contrario di tutto-), ora sembra immune ad ogni stimolo esterno; e mi riferisco agli umani. Dovrei pertanto ricorrere alla mia proverbiale capacità di inventariare, archiviare, dare sistematicità alle cose; dovrei provare ad avere meno confusione sotto gli occhi e dare spazio a chi merita. Ricordate quando andavo vantandomi del mio cuore nuovo, mai utilizzato e così cafone da non far sedere la ragione, ormai stanca? Sono sempre fermo al palo. Non chiedo a me stesso la luna, non voglio voler bene a tutti i costi. Ma mi accingo a lavorare sulla mia accettazione dell’altro, per vedere l’effetto che fa.

 
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sabato 11 maggio 2013

Con il senno di poi

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icordo che anni fa ricevetti l'invito di un amico a lavorare per lui. Sapete, le scelte fatte in uno stato di necessità spesso stimolano il coraggio salvo poi rivelarsi disastrose. Del senno di poi son piene le fosse, dunque evitiamo luoghi comuni. Ricordo anche quanto mi fosse costato rinunciare a priori dal momento che l'offerta non sembrava per nulla stimolante. Conoscendo il mio autolesionismo e aggiungendoci quello strano legame che si crea quando due amici diventano colleghi, avevo la netta impressione che qualcosa sarebbe andato storto. Così fu. Ma non è di questo che voglio parlare; vorrei sottolineare ciò che il tipo amava raccontarmi soprattutto quando non aveva argomenti per giustificare il mancato pagamento dello stipendio (ero in “nero” ndr ). Soleva infatti ribadire che una delle ragioni per cui assumeva un atteggiamento dispotico verso i suoi collaboratori, aveva radici in un lontano passato fatto di altrettanti soprusi da lui subiti durante un'esperienza di lavoro in Sudafrica. Non capivo se volesse giustificarsi ma ormai mi ero fatto un'idea del perché c'era tanto astio nei miei confronti quando, a suo dire, io non facevo le cose a dovere. E del perché ( senno di poi ) ritardasse con i pagamenti. Stamattina ho pensato di sfuggita a questo fatto. Negli ultimi tempi ho dato tregua al mio istinto rabbioso ed integralista senza peraltro reprimerlo ulteriormente; l'ho fatto perché mi è venuto del tutto naturale. E' stato più facile spostare l'attenzione su di me quale possibile causa della mia sofferenza psicologica; se il mondo ha dato il suo contributo io non mi posso sentire del tutto innocente. Così ho riflettuto sulle vessazioni psicologiche che hanno portato Enzo ad essere così, piccoli soprusi che fondano le radici nel passato. E ho concluso che io sono proprio come quello là. Non è un “mea culpa”, sarebbe eccessivo; tuttavia sembra piuttosto diffuso ricorrere ad inconsce ritorsioni su soggetti che non hanno colpe, se non quella di incrociarti nel momento in cui stai svuotando il sacco di rabbia. Sarebbe anche bellissimo dire a questo punto: siamo pari, sono tranquillo, posso ricominciare. Sarebbe bello. Le mie sono sempre considerazioni che lasciano il tempo che trovano ma che mi aiutano a guardare ogni cosa a trecentosessanta gradi. Può darsi che sia il momento di serenità che sto vivendo. Può darsi. Ma se il passato a volte è maledettamente presente solo per farti sbagliare, altre ritorna con sprazzi di luce che illuminano il tuo presente. Ecco servita la mia riflessione di oggi.

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venerdì 10 maggio 2013

Chissenefrega!

C

he bello non sentirsi più a disagio con il mondo, bello sentirsi tutti uguali, con i pregi e difetti tipici di ogni essere umano. Che bello non doversi più arrabbiare per tutto e con tutti, passare finalmente per un uomo maturo, che ha capito la lezione, che ha sotterrato l’ascia di guerra e non ha bisogno di esternare le proprie fragilità. Splendido poi aver realizzato che la vita ti costringe a fare giri immensi per poi riportarti allo stato di partenza, solo un po’ più sconvolto ma ancora cosciente. Decisamente meraviglioso poter dire di essere solo, riconoscere di esserlo sempre stato ed ora, partire in quarta verso un mondo che, bene o male mi appartiene. Chissà quanta parte di verità c’è in queste frasi, se ancora una volta prendo dallo zaino di sopravvivenza la mia dose di ironia e faccio finta di nulla. Chissà. Ci voleva forse un’ultima delusione “reale” che poi tanto delusione non è. Mi è capitato di riflettere sul fatto che la vita, pur essendo straordinariamente variegata nel suo svilupparsi, ad ognuno di noi spesso riserva modalità di approccio, relazione e distacco monotone e scontate. Mi spiego: sia per quanto concerne le mie relazioni reali ( anche sentimentali ) sia per quelle virtuali, mi accorgo di essermi fiondato nelle storie con estrema facilità, di averle vissute ( quelle sentimentali ) con la giusta passione per poi distaccarmi secondo modi e maniere quasi sempre identiche. Di chi la colpa? Non è il caso di stabilirlo qui ma posso dire di ritrovarmi anche ora a fare i conti con quelli che chiamo silenzi distruttivi. I rapporti si sciolgono come neve al sole secondo canoni che non prevedono quasi mai il dialogo e la sincerità. Silenzi. E’ curioso constatare che nel mondo di plastica un giorno hai l’impressione di stare costruendo un grattacielo, quello successivo ti rendi conto si trattava di una casa di tufo. Ad ogni buon conto, quando urlavo mi sentivo vivo. Ora che la ragione ha spalmato il suo strato di calce sulle ultime debolezze, sulla speranza, sulla rabbia, mi sento morto. Eh si. Anche E. crede che sia un passaggio obbligato verso una nuova apertura al mondo. Quando però passi una giornata terrificante al lavoro la prima cosa a cui pensi è: “Vorrei tanto fare un viaggio”. E’ la prima cosa che mi viene in mente, diciamo. Il tempo di pensare e poi..” Ma sono solo”. “E allora? Chissenefrega”. Questa è la prima novità. Forse non mi rendo conto di quanto sia importante questo “Chissenefrega!”

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giovedì 9 maggio 2013

Sullo stesso piano

L

’uomo pendolare è (che lo si creda o no) un uomo sui generis. Irritabile, infinitamente paziente, servitore del tempo, osservatore attento. Cerco quotidianamente di ritrovare nel mio ruolo di viaggiatore quotidiano una parte delle ragioni del mio malessere e, del mio essere volubile, intrattabile, incostante. Si, la ragione sta proprio nel tipo di vita che conduco. Di questo ho preso coscienza. Ciò non vuole essere una giustificazione ma di sicuro rappresenta un’attenuante generica, di cui tenere conto. Sto facendo insperati progressi sul fronte delle pubbliche relazioni, e di questo gioisco. Ripeterò alla nausea che è stato proprio grazie a quella serie di passaggi a vuoto se ora mi sento quasi ( è d’obbligo la prudenza ) guarito dal morbo di Internet. Ancora una volta mi tocca sottolineare che non è accaduto nulla di stupefacente; se così fosse significherebbe che i protagonisti del mondo virtuale mi hanno dato dimostrazione di essere alieni e non semplici umani. Non è accaduto. Loro sono terrestri e, purtroppo lo sono anch’io. Ed ora che finalmente riesco ad abbandonare la presunzione di essere superiore, di volere a tutti i costi cambiare il mondo adattandolo alle mie esigenze beh, ora tutto mi appare sotto un’altra prospettiva. In altre parole la linea di confine tra il mio mondo vuoto fatto di speranze ed attese disilluse e quello delle promesse e delle parole inutili è diventata un muro. Finalmente cioè riesco a separare i due emisferi affinché ognuno di essi possa sentirsi libero di agire senza alcun reciproco condizionamento. Il mondo virtuale non avrà più il compito di riempire i miei vuoti esistenziali ed io, da questa parte non dovrò più cercarlo per raggiungere lo scopo. Ecco, due entità ben distinte che mi appresto a vivere nel modo più giusto. Cosa farò, ad esempio della mia vita asfittica? Ad aiutarmi quelle poche amicizie “reali” che si stanno dimostrando del tutto indifferenti e menefreghiste. Procederò da solo, perché da solo ho proceduto fino ad ora. La presenza reale è già di per sé un’illusione, pretendere che diventi tale quella virtuale, un’ossessione. Dunque, non rinnegherò il mondo di plastica ma mi sto apprestando a dargli ciò che merita, indifferenza e una punta di menefreghismo. Proviamoci, in fondo la terribile conclusione è che nulla cambia, anzi tutto cambia. Non siamo punti fermi per nessuno. Giriamo vorticosamente senza mai guardarci in faccia.

 
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martedì 7 maggio 2013

Solo un capriccio (?)

L

’innata prolissità unita al cronico lamento. Considerati questi due elementi è assai probabile che questa sera io mi ritrovi ad affrontare un argomento già trattato in precedenza. E se sono di nuovo qui a scriverne, è quasi certo io non abbia ancora trovato una soluzione. Parlare del quotidiano e dei quotidiani pensieri che affollano la mente porta con sé il virus della ripetitività, della litania necessaria a liberare il cervello. Le mie riflessioni sono passeggeri di un autobus ( il cervello ) sempre affollato. Non appena si libera un posto, ecco che qualcuno vi si fionda sopra. E’ la vita. Partiamo dalla situazione contingente: una giornata di lavoro massacrante. Normale, ce l’hanno tutti. Aggiungiamo quattro ore circa di viaggio quotidiano per raggiungere il posto di lavoro e tornare a casa; quasi normale, molti lo fanno. Ora, consideriamo l’aspetto soggettivo, dunque la situazione personale di chi vive tutto ciò: la vita sociale, le valvole di sfogo, la possibilità di gioire di qualche piccola soddisfazione. E poi, la famiglia: è importante avere qualcuno che ti sostenga. Considerato questo insieme di aspetti la mia domanda è: “ E’ possibile che, un evento “fortunato”, non atteso ma in parte cercato (che ti ha pure cambiato la vita) possa, con il senno di poi rivelarsi un boomerang? Posso davvero affermare che aver trovato un lavoro, avere finalmente superato i malesseri psicologici che lo stato di disoccupazione provocava, disporre di un “portafoglio” personale, poter fare progetti, siano gli unici aspetti da considerare? E che dunque io dovrei stare bene a prescindere? Voglio una risposta perché io ( lo dico sottovoce ) non penso affatto che la mia vita sia migliorata. Anzi. Mi chiedo se, questo cambiamento anziché rendermi venale, opportunista, approfittatore, deciso, voglioso di fare mi abbia invece frantumato le aspettative sul nascere. Mi fa paura ammetterlo ma temo che il treno fortunato abbia sconvolto la mia vita senza però avvertirmi. Cioè io sono ancora lì che mi crogiolo alla ricerca del rapporto perfetto mentre tutto là fuori scorre e non aspetta altro che me. Scusate. Sono le stesse cose che avrò detto cento, duecento volte quanti sono gli articoli che ho scritto da due anni a questa parte. La risposta ce l’ho, non la voglio trovare. Ho solo voluto sfogarmi alla fine di una giornata snervante. Non sono più un bambino, dovrei smetterla di fare i capricci, ma non ci riesco.

 
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lunedì 6 maggio 2013

Un letto di chiodi

E

’ vietato illudersi, e lo so bene. Mi sono lasciato alle spalle un weekend dalle due facce: quella energica, propositiva del Venerdì e l’altra, incupita, arrabbiata, rancorosa del Sabato. Ci vuole ben poco per farmi alzare da quel letto di chiodi che è la mia testa, sul quale da tempo riposo senza dolore, come un fachiro. Sono arrivato al punto di convivere con la sofferenza interiore tanto da volerne ancora, sempre più. Ci vuole poco anche per tirare fuori il mio lato passionale, la mia ingordigia di vita; basta un bagliore di luce all’interno del tunnel che di luce alla fine, non ne ha. E così, dopo aver rivisto E.,come un bambino al quale è stato promesso un regalo di Natale, non ho fatto altro che pensarci. Perché poi sono rimasto deluso? Perché il giorno dopo l’effetto si era già dissolto? Ci vuole tempo e si deve fare i conti con la realtà. Continuo a credere di essere sulla strada giusta, volesse significare qualche sacrificio, volesse dire che ci saranno ancora sere e sere di profonda solitudine. Devo mettere un freno al bambino che ho dentro: mi illudo facilmente ma solo quando accade qualcosa di reale: ad esempio, l’incontro con E., il colloquio, i sorrisi, avevano un sapore genuino. Eppure c’è anche chi pensa che andare da una come lei significhi avere dei soldi da spendere, e del tempo da perdere. Dipende. E’ molto importante guardarsi dentro, altrettanto utile osservare gli altri; ora sto semplicemente esagerando nell’una e nell’altra cosa. Non posso tuttavia permettermi di evitare di soffrire. Sabato sera continuavo a chiedermi chi fosse quel maledetto che continua a far scendere il livello del fondo. Cosa ci può essere di peggio della solitudine di una stanza, del buio squarciato dalla luce del monitor? C’è la speranza. Non quella buona (di buttarlo dalla finestra, quel maledetto monitor) bensì quella di vedere qualcuno con cui poter condividere la propria solitudine all'interno dello schermo. Questo è il dramma. Vi prego, perdonatemi se, scrivendo di getto uso toni enfatici ed espressioni o termini inappropriati. Dramma è uno di questi. Sono impulsivo, passionale, a volte mi servo delle parole per cercare di focalizzare l’attenzione su di me. So che non serve, ma fino a quando sarò qui, su questo blog, vuol dire che avrò bisogno di certe parole. Vietato illudersi, bandite le aspettative a lungo termine. Sono stato male, starò male e sebbene sembri io lo faccia fin troppo pubblicamente credetemi, sono annientato dal silenzio dell’assenza.

 
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sabato 4 maggio 2013

Rischi del mestiere

L

e seghe mentali non faranno diventare ciechi, ma possibili clienti della neurodeliri quello si. E pensare che alcune di queste nascono da un tale egocentrismo, da un’assoluta presunzione di essere al centro dell’attenzione di una o più persone. Cioè, tratti assolutamente estranei alla personalità del sottoscritto. Contorta la macchina pensante eh? Curioso però che qualcuno, a mia insaputa, l’abbia voluta impiantare su di me con il risultato di rendermi la vita non difficile, ma impossibile. Confido, sono assai fiducioso. In fondo la totale liberazione del cervello dai pensieri marci, ammuffiti da mesi e mesi di ristagno mentale, passa anche attraverso la sega mentale. Ancor più paradossale il fatto che ne siano causa gli umani, vista la scarsissima considerazione che nutro nei loro confronti. Paradosso e contraddizione. Sono io, non c’è dubbio. La luce è arrivata, persino il primo tepore, quello che avremmo dovuto avvertire forse almeno un mese fa. E invece siamo già a Maggio, a breve non si farà che parlare d’estate. Dunque non sto diventando cieco ma almeno fino a ieri mi sentivo a pieno titolo destinatario della camicia di forza . Piano piano, me lo ripeto in continuazione, piano piano. Sono piuttosto stanco di ribadirmi le stesse cose facendo poi orecchie da mercante. Questa gente non ha ragione di esistere nella mia vita perché non ha la consistenza che voglio, che desidero con tutto il cuore; questa gente non mi ha portato nulla e smettiamola di pensare che sono il solo a farsi problemi di questo tipo. Ieri, con E. abbiamo anche parlato della differenza tra “accettazione” e “rassegnazione”. Tutti d’accordo sul fatto che la seconda sia estranea al mio vocabolario. Accettazione intesa come adeguamento alla situazione con la consapevolezza però, che si tratti semplicemente di uno stato temporaneo delle cose. Mi piace. Dunque se la solitudine è solo un passaggio, allora tanto vale prendere ciò che viene come un rattoppo, qualcosa che trascende la mia volontà di presenza e di realtà. E allora, tanto vale anche dare a questo rattoppo il suo giusto peso e valore. Sono solo all’inizio. E. ed io abbiamo fatto un bel programma di lavoro che come accadde già anni fa, darà i suoi frutti. Ora che ho riposto odio e rabbia nel cassetto, posso lavorare meglio, cercare dentro di me l’apertura al prossimo che non può e non potrà mai essere un trattino lampeggiante, una matitina, oppure una faccina creata con qualche segno ortografico. No no, puntare più in alto è un dovere.

 
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venerdì 3 maggio 2013

Verso il mare

E

ra quasi un anno che non vedevo E. ma non perché non lo volessi. Colpa degli stramaledetti orari, dello stramaledetto tran tran che ti inchioda a tempi ormai rigorosamente diventati legge. E ne sentivo il bisogno, quotidianamente, perché quotidiano è il mio voler parlare,  guardare occhi che mi guardano, senza per questo dover collegare un cavo alla presa di corrente. Oggi con E. abbiamo parlato di ossessione. Io, un fiume in piena. E’ uscito fuori di tutto, e sebbene qualcuno lo troverà assurdo, evitabile, dispendioso, io ne ho bisogno. Colpa mia, non vostra. In fondo io E. l’ho conosciuta molti anni prima di fare del mondo di plastica, il mio mondo e solo quello; il desiderio ed il fabbisogno di orecchie che ascoltano, di domande che svelano curiosità, è roba vecchia. Tutto semplicemente  ha raggiunto ora dimensioni spropositate: e la mia necessità, e la considerazione dell’altro/a come unica, esclusiva soluzione miracolosa. Il fiume di parole ha il letto ingrossato, deve assolutamente arrivare al mare e liberarsi delle scorie, dei rifiuti accumulati lungo il percorso. Anche quando parlo con E. mi osservo attentamente nei movimenti, nella postura. Appoggio frequentemente il gomito sul polpaccio della gamba destra, poggiato sulla sinistra. Poi, infilo le mani in tasca, con l’indice sorreggo il mento. Sono disinvolto, quando parlo di me provo belle sensazioni. Sono un egocentrico che pensa di avere problemi unici al mondo. Può darsi. E. ancora non sapeva del blog. E non sapeva che, anche lui sta diventando un ossessione. Come ogni cosa che faccio, necessariamente rispettosa di termini e di tempi entro i quali deve essere correttamente collocata. Una doccia, un articolo, persino la lettura di un libro debbono incastrarsi con precisione svizzera. Internet, cerco ciò che non voglio. Di tutto e di più. Non vedevo E. da un anno ed ora la rivedrò più spesso. Sono bravissimo a guardarmi dentro, sottopongo la mia psiche a straordinari quasi mai retribuiti con la moneta che meritano. Rivedere E. è solo uno dei passi silenziosi che mi porteranno non so dove, non so come, a volermi più bene di quanto io faccia ora. Parlare di E. qui, con questa scioltezza, è già un passo. In fondo il mio mondo sono io, sono ciò che sono per me non per gli altri. Quello se mai, verrà da sé quando qualcuno si degnerà di concedere qualcosa che non sia la solita fugacità. Sono sereno.

 
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giovedì 2 maggio 2013

Le bizze del tempo

A

h, sono tornato al lavoro dopo quasi sette giorni di vacanza. Ma davvero? Non me ne sono reso conto. Il rientro è stato molto meno traumatico del previsto il che significa due cose: in ufficio è tutto tranquillo oppure mi sono goduto i miei giorni a casa in modo corretto, staccando del tutto la spina. La seconda che ho detto. In realtà, proprio per il fatto di aver sfruttato nel migliore dei modi il tempo libero, avrei dovuto soffrire il ritorno ancora di più. No. E comunque sono sempre il solito strano soggetto pieno di contraddizioni, dovete tenerne conto. No ma, giusto per capire quanto sono anormale, voi quando vi piazzate nel letto cosa pensate, ammesso che siate avvezzi a farlo? Io parlo. Ieri ad esempio, mi sono fatto un bel discorso sottovoce cercando di capire cosa di buono mi avessero portato questi giorni di libertà. Come premessa, un’accurata ( quanto necessaria ) distinzione tra ciò che è mondo e ciò che sono io. Non ho fatto grandi cose, non ho viaggiato, non ho socializzato, non ho riso in compagnia. Non è una novità, no? Se non si hanno amici come puoi? Poi ho affrontato la tematica relativa ad Internet. Sapete, sette giorni di libertà, per chi vive il disagio della solitudine rappresentano una seria minaccia. Il circolo vizioso è sempre lo stesso. Apatia, noia, desiderio di compagnia, confronto. E poi? E poi niente, perché il gesto della mano che spinge il coperchio del portatile annuncia che la tua serata è finita. E poi? Ecco, mi sono detto che sto prendendo le giuste distanze, che non posso e non voglio far conoscere al mondo il mio stato, almeno a chi non può capirlo. E allora sono giunto alla conclusione finale per cui, ho fatto un altro passo avanti. Poi penso di essermi addormentato. Se mai mi fossi proposto di cambiare rotta non appena la primavera avesse irradiato di luce il mondo, ora sarei qui, con il solito pugno di mosche in mano. Ora il sole ( ammesso che si degni di tornare ) dovrebbe semplicemente rappresentare una bella ciliegina sulla torta. Sto esagerando. Voglio sottolineare sempre lo stesso fatto: non accade niente, ma cambia la predisposizione. Sarà un fatto temporaneo ma mi sia concesso di starmene sereno senza scavare più di tanto. Aspettate, è arrivato il sole. Tuoni e fulmini, poi vento, ed ora la luce. Il tempo è pazzo, umorale, irritante, presuntuoso. Come me, bizzoso e insopportabile. Eccomi, sono sole, pioggia tuoni e fulmini, sono il peggior casino mai visto. Sono riuscito a farlo capire? Ci ho provato con le solite trentacinque righe. Io non ci ho capito niente, non so voi.

 
tempesta

mercoledì 1 maggio 2013

Specchietti per le allodole

H

o anche da recuperare un po’ di credibilità, di dignità, di rispetto per me stesso. Mi sto preoccupando della mia immagine e di ciò che rappresento per gli altri. Dato il tenore dei miei post invernali, qualcuno si chiederà se ho cambiato pusher, se mi è stato fatto un lavaggio del cervello oppure se abbia sbattuto la testa contro un palo. Non vorrei che questi venti di cambiamento venissero male interpretati; non sto abbracciando il mondo dopo averlo preso a cazzotti, né intendo infilarmi pericolosamente nel circolo degli “umani”. Credo tuttavia sia importante riprendere in mano la situazione anche e soprattutto nel mio interesse. E’ ovvio che niente di tutto ciò è realizzabile senza fatica. Ed io devo faticare, devo farmi l’ennesimo esame di coscienza nella speranza di rappresentare sempre l’obiettivo del lavoro e non la vittima sacrificale. Anche in questo esatto momento soffro, lo so bene. Semplicemente penso e non posso evitare le constatazioni di fatto, le situazioni oggettive; non mi illudo di niente, ho solo voglia di non perseverare più nell’errore, questo proprio non me lo perdonerei. So bene che esistono fasi e fasi, che dunque questa può essere quella buona, ma non necessariamente risolutiva. Come già affermavo ieri, non sono accaduti eventi o situazioni concrete tali da rendere l’orizzonte più nitido e visibile. Niente. Lo voglio ribadire, non è successo niente. Ciò che accade produce movimenti impercettibili e ai più invisibili. Lo sforzo dunque è essenzialmente mentale; è un discorso di predisposizione, il tentativo di darsi da fare dopo mesi di apatia e capricci. Penso ancora, la mente vola e torna a posarsi sulle solite problematiche. Sono del tutto sincero quando dico che non cerco la serenità nelle mie passioni; sono specchietti per le allodole ed io sono l’allodola più idiota di tutte. Continuo imperterrito a cercare la felicità nell’altro, mi gioco le solite carte senza rischiare e aspetto. Perché la felicità viene da fuori, e non da dentro: possiamo solo costruirne le basi attraverso la decisione di abbassare un po’ le difese, il resto lo fa il mondo. Dunque, non ho intenzione di abbandonare la nave su cui faticosamente ho solcato il mare invernale. Ora tocca a me: se per il mio bene devo dare un’immagine diversa, migliore, ben venga. Sono curioso di ciò che accadrà, in fondo mi sta venendo naturale non cadere nell’errore. Meglio sfruttare l’occasione.

 
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