domenica 29 luglio 2012

Un magico elettrodomestico

S

i vede che sono emotivamente “carico”. Ieri, leggendo le ultime pagine di un libro nel quale mi sono fortemente immedesimato, mi sono commosso. Fortuna che avevo su i miei fanali da sole, gli occhi mi avrebbero tradito e, probabilmente anche la voce. In questi periodo riconosco e accolgo tutte le mie debolezze perché non sempre la fragilità umana porta con sé scompensi e negatività. Mi accorgo ad esempio di essere particolarmente stimolato ad argomentare, mi sento ispirato, potrei persino scrivere un libro di poesie. E’ il lato magico dell’empatia portata agli eccessi. Ieri, dicevo, ho imboccato il primo treno per il mare, subito atterrito dall’orda umana che prendeva posto in ogni dove sul vecchio regionale a due piani. Non stai andando a lavorare Enzo dai, non cominciare a lamentarti altrimenti ti rovini il viaggio. Ho impiegato una decina di minuti nell’intento di farmi entrare questo concetto in testa poi, zaino a terra, ho tirato fuori il mio libro. Le pagine, solo le pagine. Non ho distolto lo sguardo fino a che un signore attempato con bagaglio da emigrante primi del Novecento, si è reso conto che era il caso di alzarsi. Avrebbe infatti dovuto scavalcare ammassi di ciccia, trolley e persino qualche tavola da surf per poter raggiungere la tanto agognata uscita. Scatto felino, ho affondato il colpo finale e mi sono seduto; dopo quarantacinque minuti in posizione semi eretta, persino quei maledetti sedili blu sembravano poltrone di Roche Bobois. Insomma, fino al momento di quelle ultime pagine di quel libro che tanto mi ha provato. Si dirà che non è il libro, che non è ciò che ci circonda a provocare in noi reazioni tanto esagerate ma siamo proprio noi ad avere una certa predisposizione. Ricordo perfettamente quei periodi della mia vita in cui, il mattone esistenziale batteva cassa: non mi era concesso di nasconderlo più di tanto, non era propenso a farmi credito per troppo tempo. Ad un certo punto risaliva, ed io dovevo pagare il prezzo. Torna su, il mattone, poi lo spingo giù. Ora che è arrivato fino alla gola, strozzandomi in una presa da lottatore, pago il mio dazio. E come dicevo non si tratta solo di difese azzerate, di fragilità emotiva degna di un neonato. Voglio parlare di una sensibilità acuita che si manifesta in ciò che scrivo, in ciò che leggo, in ciò che vedo. Mettete ad esempio, il mare. Ieri, al ritorno dal mio viaggio mi è balenata questa frase “ Il mare lava l’anima, strizza i pensieri bui e asciuga gli occhi del pianto. Il mare, è un elettrodomestico magico”. Se non vivessi di emozioni, non riuscirei ad inventarmi simili sciocchezze.

 
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venerdì 27 luglio 2012

Rebus sic stantibus

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ggi mi sento interiormente devastato, tanto da montare il desiderio di ritornare al lavoro. Potrebbe sembrare la solita reazione istintiva che si manifesta al raggiungimento del picco di non-vita. Ma mi ero avvisato da solo e mi ero raccomandato che, non avrei fatto piagnistei. Parlo in riferimento alle due settimane consecutive di ferie che ho spinto per avere, ben sapendo che probabilmente non mi sarebbero servite affatto. Ritorno a pensare in maniera sempre più convinta di non aver bisogno di ciò che non ho, bensì di mantenere stabile, statica ed immobile la mia situazione. Oggi mi monta il magone allo stomaco. Ci si è messa pure la palestra, con i suoi orari strambi, con i venti di chiusura definitiva. Fa caldo, molto caldo e ho rinunciato ad andare in piscina: stare molto tempo al sole, stanca, sfianca, mi rende pure nervoso. E io dunque a chiedermi chi me lo fa fare, perché lo faccio, a quale scopo. Mi manca la sostanza di amicizie concrete, mi mancano sguardi, pacche, risate vere che non si limitino ad un “ahahah” oppure ad un’emoticon. La solita litania, ripetitiva, melensa, ma che ci volete fare, ho più tempo per stare sul blog e se vado a riempirlo tutti i giorni, questi sono sempre i contenuti. Dunque vorrei così tanto tornare al lavoro? Ma no che non voglio, ma sarebbe l’unico modo utile per non pensare a nulla. Delle due l’una: se lavoro mi cruccio di quanto sono deficiente, responsabile, impegnato, e ci sto male. Se sto a casa, faccio un tuffo nel vuoto esistenziale che mi porto dietro e, inevitabilmente crollo. Ricordo dunque, perché spesso i ricordi aiutano a calarti meglio nella parte del presente. Ricordo la grinta, la costanza, la voglia di riempire i giorni che caratterizzava questo stesso periodo dell’anno nel 2011. Cosa mi spingeva a farlo? Cosa mi aveva tanto stimolato da mettermi in prima linea spingendo in basso il mattone esistenziale? Io lo ricordo bene. E quell’evento fu di tanta e tale portata da rendere assolutamente veritiero il detto “di necessità, virtu’”. Ma io sono scontante, troppo umorale e faccio presto a dimenticare. Non riesco a mantenere salda la presa su tutto ciò che può dare insegnamento, che può valere da monito. Siano esse situazioni, parole, persone. Sarebbe il caso di congelare questo ben di Dio che di tanto in tanto arriva. Le mie riflessioni hanno sempre valore “rebus sic stantibus”, vivere alla giornata non evidenzia miglioramenti o peggioramenti ma semplicemente le piccole, insignificanti reazioni dell’animo. Il mio blog è questo. Perdonatemi.

 
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giovedì 26 luglio 2012

Il soprammobile

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e non vedo una persona da molto tempo e mi capita di ritrovarla, noto immediatamente il lavoro del tempo sul suo viso. Se invece la vedo tutti i giorni, non mi accorgo che invecchia. Penso che abbiate notato anche voi questa cosa. Allora mi sono chiesto: da quanto tempo io non vedo me stesso? Se lo facessi, come mi scoprirei? Invecchiato, diverso? Non parlo naturalmente dell’aspetto fisico, ma di quello interiore. Se proprio volessi scoprire l’arcano, mi basterebbe guardarmi allo specchio, fissandomi negli occhi. Non mi è mai successo di farlo con tanta intensità come ieri. Ho fatto le ore piccole, ma non immaginatemi immobile davanti allo specchio del bagno. Il mio specchio virtuale spesso è nelle persone che incontro, che seppur fugacemente entrano nella mia vita e provano a tirarmi fuori dalla palude. Il confronto di ieri ha prodotto la seguente sentenza: sono diventato una persona che ha paura di essere felice, che non vuole uscire dal pantano. Sono una persona gelosa, invidiosa dell’altrui felicità e che tirata per il braccio in segno di aiuto, è come avesse il sedere cementato al suolo. Non mi guardavo da tanto, e me e sono accorto. Stiamo parlando di un periodo lungo dieci anni, tanto è passato da quando la mia vita ha cominciato a cambiare. Impaurito, diffidente, irriverente, irritante. Questo sono io non appena qualcuno mi dice cosa devo fare per migliorare la mia vita, per uscire dal limbo. Non ci credo e mi tiro indietro. Nessuno può farlo se non qualcuno che viva intensamente sulla sua pelle le mie stesse emozioni, le mie carenze, i miei limiti. Una sorta di mal comune mezzo gaudio. Può una persona che vive una vita di relazione soddisfacente prendersi a cuore la situazione di uno sconosciuto? Può davvero? Non mi fido, o meglio, non voglio che mi si aiuti. Perché prima che mi si dica cosa è meglio per me, ho bisogno di capire cosa voglio io. Voglio che niente cambi? Voglio dare una svolta radicale alla mia esistenza? Non ci vuole molto a far si che tutti resti così: basta rimanere inerte. Non riesco più a tollerare le persone che mi dicono cosa devo fare; precisiamo, quelle che mi conoscono appena, intendo. Una cosa non sopporto di me: la facilità con cui mi apro, sconosciuti compresi. Mi chiedo cosa spinga qualcuno a trovare in me una persona da aiutare. Da rendere felice. Non dite un sentimento di amicizia, perché nel mondo virtuale questo è quasi impossibile. Laila cara, mi ci sono guardato in quello specchio e ci ho visto tanta polvere, tanta inerzia, come un vecchio soprammobile abbandonato. Ora sono questo.

 
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martedì 24 luglio 2012

Pensione completa

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na volta aprivo la porta del mio cuore a cani e porci. Offrivo ai miei ospiti vitto e alloggio con ampia facoltà di scelta sul menù. Qualche volta poi, facevo sconti comitiva, tutto al fine di trattenerli il più possibile, di non farli allontanare da me. Nella maggior parte dei casi i clienti approfittavano delle agevolazioni, mangiavano e se andavano. Una volta mi impegnavo molto, ero ancora persecutore del credo del “chi trova un amico trova un tesoro”. Ma commettevo un errore madornale: pensavo che tutti avessero diritto ad una, due o più possibilità di errore. E prima che li cacciassi io, erano loro ad andarsene. Ai giorni nostri non apro più la porta agli sconosciuti, sono cresciuto e sono diventato un uomo responsabile. Si bussa prima di entrare, io apro e faccio attendere tutti in sala: poi, scelgo. Mi si dirà che questa è la soluzione giusta, che maturando la selezione è quasi naturale. La cosa più strana di me è che ho ridotto ampiamente i tempi di sopportazione. Ho esaurito le scorte, come si dice. Mi spiego meglio e sinteticamente: dopo aver individuato persone di un certo spessore, ne succhio il nettare per un certo periodo, poi chiudo la porta. Cosa succede? Cosa mi sta succedendo? Qualcuno dei miei amici ormai scomparsi leggendo questo articolo troverà probabili risposte a ragionevoli dubbi. Chi entra nella mia vita in questo periodo si accorgerà che ad una fase in cui il rapporto sembra maturare ne segue un’altra di totale assenza emotiva. Insomma, apro la porta, faccio fare colazione e poi, via tutti. Altro che libera scelta dei menù. Vorrei saper gestire il mio cuore, ammesso che ne abbia ancora uno. Chi mi conosce, di primo acchito non fa altro che dispensarmi complimenti sulla mia sensibilità, il mio essere davvero diverso dagli altri. Quando sento tutto ciò, ho un colpo allo stomaco. Mi viene da dire: “state attenti, perché sarà anche vero questo, ma…” Sono sicuro che interpellando un campione di 100 persone che sono entrate nella mia vita negli ultimi anni, il 99 per cento concorderà nel dire che Enzo è proprio uno di quegli “strani”. Io lo dico ora, ogni volta che mi capita di entrare in contatto con qualcuno. Attenzione, apro la porta, faccio assaggiare e lascio spazio all’immaginazione. Chi sono io per agire così? Nessuno. Ma non c’è niente di più meritevole dell’essere onesti. Ed io , modestamente, lo sono. Chi non è d’accordo, commenti. 




lunedì 23 luglio 2012

Nuvole

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i mancava Circe. Per la ben nota legge di Murphy, è arrivata in perfetta sincronia con l’inizio ufficiale del mio periodo di ferie ( due settimane –ndr -). Da ieri il cielo è popolato di nuvole dalla forma incredibile quanto bizzarra ed il vento le sposta continuamente di qua e di là costringendomi a variare i piani della giornata alla frequenza di un nanosecondo. Si è rivelato un azzardo annotare sull’agenda del cellulare alcune possibili soluzioni per la gestione delle giornate di riposo. Piazza un viaggetto lì, una pedalata là, un po’ di finto sole da piscina ancora più in là ed il gioco è fatto. Ma figuriamoci. Questa mattina l’ho trascorsa in palestra, con un po’ di tristezza nel cuore. Sarà l’ultima settimana, poi probabilmente chiuderà per sempre. Dopo circa undici anni di frequenza un po’ mi dispiace. Chi ha in mente oppure pregiudizialmente ritiene la palestra come un luogo per montati tutto muscoli privi di cervello, si sbaglia. Non sono tutte così. Stamattina io ed una signora attempata ma straordinariamente gagliarda nei movimenti e nella postura, ci siamo detti che in fondo certi luoghi rimangono nel cuore, anche se apparentemente freddi come una sala macchine. Io poi, in quella palestra ho esordito al culmine di uno dei peggiori momenti della mia vita. Ed è lì che ho cominciato a volermi bene, a volere bene innanzitutto al mio corpo. Ho parlato poco delle mie uscite in bicicletta; non ce n’è quasi traccia sul blog, a differenza dell’anno passato. Attenzione, le emozioni sono le stesse, solo che non le metto nero su bianco. Ma la ragione è quella di cui ho già detto, sono distratto, sfuggente, sempre con la sensazione di vivere sull’orlo del precipizio. Sto ridando un certo assetto al mio stomaco malato di nervoso, dopo le ultime due settimane lavorative a ritmi esagerati. E’ una grande impresa per me il solo azzerare i pensieri legati al lavoro e alle sue dinamiche impazzite. Sono stato al centro dell’attenzione come mai mi sarei immaginato: oggetto di possibili scelte altrui e autore di possibili decisioni catastrofiche. Per uno come me, da sempre incapace di assumere posizioni chiare, di fare scelte e di farle possibilmente per se stesso, si è trattato di una vera prova del fuoco. E mi aspetta probabilmente un Settembre caldo. Ora, spaparanzato sul letto in una giornata d’estate dal cielo bizzarro guardo le nuvole. Anche loro sembrano spezzarsi in tanti piccoli batuffoli quasi a volersi alleggerire il carico. Seguo il loro esempio.

 
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giovedì 19 luglio 2012

Io sono io e gli altri….

Chissà perché devo torturarmi il cervello, chissà perché devo pugnalarmi lo stomaco, chissà perché devo piangere e raggomitolarmi sul letto. Chissà perché non posso rinunciare a tutto questo per capire che niente cambia e tutto rimane sempre come è. Come un bambino che si è perso al supermercato e disperatamente cerca la mamma, io cerco la strada per uscire. Non ci sono carrelli e rumore indistinto di casse intorno a me. C’è solo un forte rumore di fondo, un miscuglio di volti che mi torturano con le loro bocche da cui escono frasi sconnesse, contorte. Io come un bambino disperato, mi giro intorno, mi rigiro, fino a perdere l’equilibrio. Vorrei queste voci tacessero, vorrei che quei volti sparissero dalla mia vista. Vorrei essere solo in una stanza e finalmente guardarmi allo specchio. Fissarmi intensamente negli occhi e vedere cosa ci leggo, cosa sono diventato, dove sta la ragione di tanta sofferenza. Non voglio più guardare, parlare, agire e decidere in nome e per conto di altri. Voglio farlo per me stesso cazzo. Non devo ( mi colpisse un fulmine ogni volta in cui sto per farlo )  mai più anche solo per un attimo pensare al prossimo. Farò un gioco di cui il solo player sarò io: mi immaginerò solo ovunque io mi trovi e lo farò ogni qualvolta io sarò chiamato a prendere decisioni, a fare delle scelte. Nessuno potrà trapanarmi le orecchie, nessuno potrà dirmi se fare una cosa, e cosa, soprattutto. Se la vita è poi un gioco, mi sia concesso di scegliere le tattiche giuste per sopravvivere. Io non ho mai chiesto la luna, alla vita. Semmai ho preteso la luna da me stesso finendo per essere io vittima di uno spudorato meccanismo di autodistruzione. Non ho 44 anni. Non sono un uomo. Voglio scegliere, voglio stare bene. Se qualcuno potesse guardare con i miei occhi si accorgerebbe delle dimensioni spropositate di ogni cosa che mi circonda. Si accorgerebbe in modo particolare di quanto i volti delle persone, le loro parole acquistino un peso enorme. Tutto a fronte di un essere minuscolo ed indifeso, quale io sono. No no, nessun tentativo di attirare l’attenzione, nessuna voglia di cercare protezione. Solo tanta voglia di dire che ci sono e che gli altri, sono nessuno.

mercoledì 18 luglio 2012

Mal di pancia

Immagino vi sia capitato più volte di avere dentro un sacco di cose da dire senza sapere da dove cominciare. Voglio scrivere questo articolo “a caldo” ma, giocoforza, i pensieri e le sensazioni finiscono inevitabilmente per mescolarsi, sovrapponendosi tra loro; è come se ingurgitassi d'un fiato un bicchiere di vodka. Lo stomaco brucia,si è contratto fino a creare quella odiosa situazione dei pantaloni che scivolano dalla vita. E' il mio personalissimo campanello d'allarme. Oggi sono uno straccio. Barba lunga, viso scavato, rabbia mista a disappunto. Continuo a ripetermi chi me lo fa fare a prendermi certi mal di pancia, in nome di cosa io dovrei sentire lo stomaco che si contrae e provare una fisica sensazione di disagio. La vita è piena di cose futili. Tra queste, la più inutile è il lavoro. O almeno nel senso che, se si eccettua il suo intrinseco risvolto venale, non esiste motivazione alcuna per fare di esso motivo di arrabbiatura. Al lavoro ci vai, ti tocca. Se sei fortunato, trovi anche qualche collega dall'aspetto umano, il più delle volte convivi otto ore con totali estranei e fai cose che non ti piacciono. Pazienza, ci sta. Sono ai ferri corti con il mio buonismo, la mia assoluta ed incondizionata disponibilità. Non è colpa di nessuno, non è colpa dei capi, non è colpa dell'organizzazione, è solo colpa mia. Il mondo è nelle mie mani, perchè non dovrebbe esserlo la mia vita? Perchè mai non dovrei avere il controllo della situazione per otto ore al giorno? Chi può permettersi di agire od omettere di farlo creando scompiglio nella mia esistenza? Sono libero, sono pienamente padrone delle mie decisioni. O almeno sono libero di essere a posto con la coscienza. Non posso accorgermi di averla solo quando devo sentirmi in colpa. Sono disorientato. Ho bisogno di abituarmi all'idea che non esista cosa o persona al mondo per cui valga la pena dimostrare di essere qualcuno. Noi siamo questi e questi rimaniamo. Se poi scegliamo di voler provare a noi stessi quanto valiamo, problema nostro; e per favore, evitiamo di usare come banco di prova il lavoro. Sono pronto ad attraversare il ponte immaginario che, dalla conquistata autonomia, mi porterà verso lidi non ancora esplorati, isole felici dove a regnare è l'anarchia, la forza mentale, la capacità di dire no, di farsi sentire. Adesso basta. Adesso basta davvero. Nessuno, questo lo devo capire: nessuno potrà mai giudicarmi ed è assolutamente vietato continuare a pensare che a qualcuno freghi del mio contributo. Tutto questo a due giorni dalle ferie. Non ditemi che mi devo riposare o non pensare. Ditemi che devo smetterla di fare l'idiota, che devo pensare solo ed esclusivamente a me, alla mia vita, e ditemi che nessuno potrà mai impedirmi di essere felice. Non posso più permettermi di vergognarmi di ciò che sono, devo solo alzare la voce. Non costa fatica, la soluzione sono io.
 
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sabato 14 luglio 2012

Le rocce

Probabilmente l’anno passato avrei dedicato loro un post in tempo reale. I miei genitori ( le rocce, come amo definirli ) hanno festeggiato il loro cinquantesimo anno di matrimonio, lo scorso Giovedì. Sono contentissimo perché, nonostante tutto, hanno molti amici più di me, i quali si sono prodigati per organizzare una bella festicciola in campagna. Io avrei voluto partecipare ma, complice il lavoro, ho dovuto rinunciare. Pazienza, ho già in mente qualcosa per loro non appena inizieranno le mie ferie ( il 20, ndr ). Dicevo che c’è sempre qualcosa che suona strano, che se sono qui a celebrare questo evento con ritardo, qualcosa in effetti non torna. Da tempo mi pongo la stessa domanda sebbene non si tratti di nulla di importante. Non è “questione di stato” conoscere i motivi che da tempo mi tengono lontano dal mio diario. Ogni tanto torno qui a scriverne, quasi volessi a tutti i costi trovare una giustificazione. Sto cercando di capire e di valutare chi sia vittima e chi, carnefice. Il nemico immortale è il tempo, invincibile ed eterno e ne sono surclassato. Se è sempre esistito un qualche collegamento tra questi fogli e la mia anima in pena, allora delle due l’una: il mio animo si è placato oppure sono io ad essere distratto. Propendo per la seconda soluzione. Mi sto guardando sempre meno dentro, il che non vuol affatto dire che sto meglio, che tutto è passato, che finalmente ho imparato a vivere davvero. No no, non è affatto così. Sono distratto ma non so da cosa. Mi dispiace. Tutto quel desiderio di protezione e quel senso di sicurezza che facevano del mio blog un ricovero necessario, dove sono ora? Ascolto voci, mi limito al superficiale dialogo quotidiano, sopravvivo. Ora sono di nuovo qui, stasera. Perché? Perché non ho alternative. Secondo voi, se chiedete ad un amico/a di uscire adducendo come motivazione il fatto di non avere di meglio da fare, come pensate la prenderebbe? Per fortuna i fogli non parlano, ma hanno vita, prendono gradatamente la forma di chi li riempie di inchiostro, fino a trasformarsi in uno specchio che riflette tutta la nostra natura di uomini deboli. Questi fogli mi dicono che forse al momento non è necessario, che probabilmente non è analizzandomi che risolvo i problemi. Mi stanno sussurrando all’orecchio che loro sono sempre qui. E non mi rinfacceranno mai di cercarli solo quando serve. Ecco, il solito egoista; il post era per loro dunque: auguri rocce. 

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venerdì 6 luglio 2012

E’…carattere

Il momento è delicato. Sto vivendo sul lavoro una fase di grande caos, di cui non sono certo il responsabile ma la solita vittima. Non è un discorso di piangersi addosso, non è proprio il mio caso. Lavoro e molto, fino troppo direi; mi pare tuttavia ( in virtù delle mie capacità ) di essere entrato in un tunnel da cui sarà difficile uscire. Mi trovo nell’occhio del ciclone per due motivi, di cui uno è piuttosto scontato quanto irrilevante: incapacità gestionale e assenza di autorità da parte di chi di dovere. A preoccuparmi è un aspetto che mi riguarda direttamente. Insomma, non giriamola tanto: oggi, mi sono sentito dare del coglione e non ho fatto una piega. Avrei dovuto forse ribellarmi ad un’offesa tanto grave rivoltami con, stampato sul viso di chi l’ha pronunciata, uno smagliante sorriso? A dirla tutta oggi non ho avuto alcun alterco, nessuno mi ha insultato, ma qualcosa come sempre non torna. Da tempo ho abbandonato il falso credo secondo cui la disponibilità e l’impegno siano motivo di vanto, da tempo non credo più alla solita solfa che fa dell’uomo onesto e capace un modello da imitare. Ciò non ha più alcun valore nella vita, figuriamoci sul lavoro. Ma io non posso farci niente, ho una croce che mi porto dietro e quella croce si chiama “carattere”. “Sai, (si diceva oggi ) Enzo si è proprio calato nel lavoro mentre altri no” . “Enzo è proprio bravo, lui si è dimostrato disponibile a fare tutto, altri no”. E gli altri? “Eh, appunto, ma non è il caso che anche gli altri…” “Ma no, è questione di carattere”. Maledetto. Io lo odio questo fantomatico carattere. E allora, con un bel sorriso stampato in volto, mi è stato ricordato quello che nascondo sempre a me stesso: quando ci sei dentro fino al collo puoi uscirne solo sforzandoti di essere ciò che non sei. Che dire di no, non deve essere mai un gesto coraggioso, che fare il tuo e basta non deve impaurirti. Chi come me ha sempre temuto il giudizio altrui facendone metro esclusivo per valutare sé stesso, vive male. Mi chiedo perché, mi chiedo cosa mi impedisca di non lasciarmi andare e trascinare dalle cose banali , vedi il lavoro. Perché, nel marasma che è già di per sé la vita, il lavoro merita la dedizione minore. Ma sono sempre qui a ripetermelo.
 
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martedì 3 luglio 2012

“V” di viaggio

L
a carrozza del regionale è finalmente sgombra dal rumore studentesco, l’ingresso alla scala mobile che scende verso la metro splendidamente libero. Fare il pendolare a Luglio ha persino un sapore dolce, se si eccettua l’ingresso lento del treno a Porta Nuova: appena scendi, di fronte a te, è tutto un caos di valigie, uomini e donne di bermuda e infradito vestiti che attendono la partenza per le vacanze. Ecco, appunto, proprio di questo voglio parlare. Anche per quest’anno, quasi a non voler spezzare il filo spesso della monotonia che mi circonda, ho preso ferie a cavallo tra la fine di Luglio e l’inizio di Agosto. Non mi pento della scelta; giunto a questo punto della stagione lavorativa, farei una fatica tremenda ad aspettare Agosto. Il problema minore è stato quello di far coincidere il mio periodo di vacanza con quello di qualcuno, allo scopo di organizzare una sorta di viaggio. Problema inesistente. Anche quest’anno rinuncio mio malgrado a fare qualcosa che sia degno di chiamarsi “viaggio”. Nei miei sogni ( neanche poi tanto presuntuosi ) e nelle mie immagini invernali c’erano il mare, magari pure la montagna. Sembra incredibile ( ma mica poi tanto ) che, a distanza di un anno, l’estate arrivi a ricordarmi che le cose non cambiano, almeno se non decido io che esse cambino. Sono ancora solo, ma questa volta ho deciso di non elemosinare nulla che non fosse sentitamente voluto da altri e, si sa, spesso da questo modo di agire ricaviamo tristi risposte ed altrettanto frustranti certezze. Mi tocca dire ancora una volta, sospirando, che va bene così. Non c’è tristezza nelle mie parole, né eccessiva amarezza nel raggiungere le più evidenti conclusioni. Esiste forse un velato senso di rimpianto per l’ennesima occasione sfumata ed un inevitabile rimorso a posteriori per non aver provato a cambiare le cose. Io sono convinto che le cose ( la vita stessa ) possano essere di una semplicità disarmante e che non sono poi sempre io a volerle complicare navigando nei meandri della mia complicata personalità. Pensandoci bene, il fatto di non arrabbiarmi o di non aver ancora fatto assolutamente nulla per cambiare rotta, potrebbero essere indice di stagnazione e rassegnazione ormai ineluttabili. Siamo sul solito discorso legato alla mia non-voglia di cambiare le cose. Mettiamola così: non mi lamento, non mi arrabbio, e accetto. Poi da lì a dire che sia solo io a non volere le cose ne passa. Intanto siamo a meno 13.
 
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